Il Green New Deal, il cosiddetto “Patto Verde”, è la “risposta” dell’Unione Europea all’emergenza dei cambiamenti climatici. Si tratta di un piano d’azione volto a:
- promuovere l’utilizzo efficiente delle risorse passando a un’economia pulita e circolare
- ripristinare la biodiversità e ridurre l’inquinamento
L’obiettivo concreto, quindi, consiste nel limitare l’aumento del riscaldamento globale per non causare ulteriori danni al pianeta e, di conseguenza, alla specie umana.
Per questo, il patto prevede una serie di misure, normative e investimenti da realizzare nei prossimi trent’anni, affinché si riesca a “decarbonizzare” il settore energetico – che rappresenta il 75% delle emissioni inquinanti – e a far sì che l’Europa diventi il primo continente a impatto climatico zero entro il 2050.
Gli interventi sono ad ampio spettro e interessano prevalentemente:
- la produzione di energia elettrica pulita
- l’edilizia privata e industriale finalizzata al risparmio energetico
- la sostenibilità dei processi produttivi
- la mobilità sostenibile
- la promozione della biodiversità nel settore dell’agricoltura
A questa politica climatica che comprende anche l’aspetto energetico, si va ad innestare la direttiva RED II, che dovrà essere recepita a livello normativo dagli stati membri entro il 30 giugno 2021. Ogni stato membro, quindi, dovrà fare in modo che entro il 2023 la propria quota di energia da fonti rinnovabili utilizzata in tutte le forme di trasporto sia almeno pari al 14% del consumo finale di energia nel settore dei trasporti.
Si segnala, inoltre, che il 14 ottobre 2020 la Commissione Europea ha adottato l’ “Assessment on the Final National Energy and Climate Plan of Italy”; ha valutato, cioè, il piano energetico e climatico definitivo nazionale.
Nel piano energetico vediamo che in Italia, nel settore dei trasporti, la quota di energie rinnovabili è stata aumentata per raggiungere il 22% entro il 2030. Le principali misure riguardano la promozione del biometano e l’introduzione di una quota obbligatoria per il consumo di biocarburanti convenzionali ed avanzati entro quella data.
Allora perché il Green New Deal dovrebbe includere tra le proprie priorità anche incentivi in favore della filiera degli oli vegetali esausti? La risposta è semplice. Perché dagli oli vegetali esausti, cioè gli oli di frittura o residui dai sottolio, è possibile ricavare biocarburanti, che possono sostituirsi ai carburanti di origine fossile e, quindi, portare dei grandi vantaggi in termini ambientali e non solo.
Il Conoe e l’impatto della raccolta degli oli vegetali esausti
Per capire meglio l’importanza di questo settore, è bene analizzare il panorama italiano e soffermarsi sul ruolo del Conoe e sui dati riguardanti la raccolta di olio vegetale esausto in Italia.
Il CONOE è il Consorzio Nazionale di Raccolta e Trattamento degli Oli e grassi vegetali e animali Esausti. È stato costituito nel 1997 e ha iniziato la sua attività nel 2001 con l’obiettivo di incrementare nel nostro Paese la raccolta di oli e grassi vegetali e animali esausti e di organizzare e controllare su tutto il territorio nazionale la filiera di smaltimento per l’avvio al riciclo.
Svolge la propria attività a fini ambientali, a tutela della salute pubblica e allo scopo di ridurre la dispersione di questa tipologia di rifiuti, trasformando un danno ambientale ed economico in una risorsa.
Nel 2017 in Italia si stima che siano state prodotte circa 260 mila tonnellate di oli vegetali esausti, di cui 166 mila tonnellate (64%) derivanti dalle famiglie e 94 mila tonnellate (36%) dai settori professionali (industria, ristorazione e artigianato).
Dei quantitativi prodotti sul territorio nazionale, il Consorzio ha raccolto nello stesso anno 72.000 tonnellate di oli, che ha avviato al recupero per il 90% (64.800 tonnellate) per la produzione di biodiesel.
Analizzando questi dati, salta subito all’occhio la quantità di olio che viene ancora disperso (soprattutto in ambito domestico) e, quindi, l’enorme potenziale che si potrebbe avere, intercettando l’olio vegetale esausto prodotto dalle famiglie.
Se infatti per il settore professionale (ristoranti, bar, pasticcerie, ecc) esiste una normativa (D.Lgs. 152/2006 e s.m.i.) che obbliga gli esercenti a differenziare questo tipo di rifiuto affidandolo ad aziende autorizzate, per quello domestico non esistono ancora leggi che impongano ai Comuni, e quindi ai cittadini, la raccolta differenziata dell’olio vegetale esausto.
Occorrono allora direttive e misure, anche a livello europeo, che incentivino le Amministrazioni Comunali e le Municipalizzate ad avviare un sistema di raccolta capillare degli oli di provenienza domestica sul proprio territorio.
L’alternativa nefasta, infatti, rimane il versamento degli oli da parte dei cittadini negli scarichi domestici con problemi sia di tipo ambientale che economico, perché se non gestiti correttamente gli oli:
- inquinano fortemente l’ambiente e l’ecosistema (mari, fiumi, terreni);
- causano danni ai depuratori comunali e comportano ingenti costi in termini di manutenzione (circa 1euro per ogni kg di rifiuto che giunge al depuratore);
- non possono essere avviati al recupero per essere trasformati in nuove risorse (saponi, vernici, distaccanti per edilizia e, soprattutto, biodiesel).
Quanto è importante avviare al recupero gli oli vegetali esausti?
E quanto incide il biodiesel sull’impronta ecologica rispetto ai carburanti tradizionali?
Come abbiamo visto gli oli vegetali esausti, in linea con le normative europee che puntano alla produzione di energia da fonti rinnovabili, possono dare vita anche a biodiesel. La Fondazione per lo Sviluppo Sostenibile ha pubblicato uno studio per il CONOE in cui si evidenzia che l’uso di biocarburanti ha importanti vantaggi ambientali rispetto all’uso di carburanti derivanti dal petrolio. Partiamo innanzitutto dai gas a effetto serra.
Nel 2017 nella sola filiera CONOE sono state prodotte ben 60 mila tonnellate di biocarburante con le circa 65 mila tonnellate di oli vegetali esausti avviate alla produzione di biodiesel. L’attività di raccolta e produzione ha generato circa 26 mila tonnellate di emissioni di anidride carbonica, a cui si aggiungono poco più di 10 mila tonnellate di anidride carbonica emesse durante la combustione del carburante.
A fronte di queste emissioni, lo stesso quantitativo di diesel di origine fossile avrebbe invece generato l’emissione in atmosfera di 224 mila tonnellate di anidride carbonica equivalente (sommando produzione e combustione).
Nel complesso, quindi, grazie al biodiesel prodotto dalla filiera CONOE nel 2017 è stata evitata l’emissione in atmosfera di 188 mila tonnellate di anidride carbonica equivalente.
Lo stesso può dirsi per il consumo di acqua connesso alle attività di produzione. Per il biodiesel della filiera CONOE sono stati consumati nel 2017 circa 132 mila metri cubi di acqua; il diesel tradizionale avrebbe generato invece, a parità di resa, un consumo idrico pari a 210 mila metri cubi.
Anche in questo caso il bilancio complessivo indica, quindi, un risparmio idrico netto derivante dalla produzione di biodiesel nella filiera CONOE nel 2017 di circa 78 mila metri cubi.
Il Climate Change è una questione da affrontare nell’immediato. Se davvero si punta a ‘decarbonizzare’ la mobilità va suffragato il ruolo centrale del biodiesel da oli esausti come carburante sostenibile.
Occorre allora il contributo di tutti e la collaborazione tra Legislatori, Pubbliche Amministrazioni, CONOE, Comuni e Municipalizzate, affinché la raccolta differenziata degli oli vegetali esausti diventi davvero capillare sul territorio e si trasformi in una buona abitudine al pari della raccolta della carta o della plastica.
Iniziamo da subito a guardare questi rifiuti con occhi diversi, perché non possiamo più considerarli solo rifiuti, ma soprattutto nuove risorse.